Appalto, infortunio sul lavoro e responsabilità amministrativa dell’ente: sentenza n. 10647 del Tribunale di Milano del 28/10/2015

STUDIO LEGALE
Appalto, infortunio sul lavoro e responsabilità amministrativa dell’ente: sentenza n. 10647 del Tribunale di Milano del 28/10/2015

Con la sentenza in argomento, il Tribunale di Milano ci illustra alcuni consolidati principi sull’applicabilità del D.lgs. 231/01 in materia di responsabilità amministrativa degli enti, che risulta proficuo analizzare, segnatamente alle connessioni con le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Anzitutto, ai fini di offrire una visione quanto più completa della vicenda, analizziamo brevemente i fatti che portarono al verificarsi dell’evento infortunio. L’incidente si verificò in occasione di un affidamento dei lavori di manutenzione delle caldaie. In questo scenario, il dipendente dell’impresa affidataria dei lavori, salendo su di un trabattello di proprietà della ditta stessa, non correttamente ancorato, cadeva da una altezza di circa sette metri a seguito di una collisione causata dalla movimentazione di un carroponte della ditta committente.

A seguito di tale vicenda, violazioni sono state contestate tanto alla ditta committente quanto alla ditta appaltatrice dei lavori. Alla committenza è stata contestata la mancata elaborazione del DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenze), secondo quanto disposto dal dettato dell’art. 26, D.lgs 81/08. Parallelamente, alla ditta affidataria dei lavori è stato rimproverato il fatto di non aver messo a disposizione attrezzature conformi alle previsioni dell’allegato XXIII del D.lgs. 81/08, di non aver applicato le disposizioni inerenti ai ponti su ruote stabilite dall’art. 140 D.lgs. 81/08 e di non aver cooperato all’attuazione delle misure di prevenzione dei rischi derivanti dall’attività lavorativa oggetto dell’appalto.

Al netto delle risultanze probatorie, il Giudice ritiene configurabile il reato presupposto di cui all’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose), commesso dal datore di lavoro della ditta affidataria dei lavori in cooperazione con il legale rappresentate della ditta appaltante. L’evento infortunio viene visto come diretta conseguenza _in nesso di causa_ delle omissioni del datore di lavoro sulla messa in sicurezza del trabattello, nonché dal difetto di coordinamento tra il personale delle due ditte, dal quale derivava l’interferenza (scontro tra carroponte e trabattello).

Nella sentenza che qui ci occupa, le contestazioni in merito alla responsabilità amministrativa da reato vengono mosse al mero indirizzo dell’impresa affidataria dei lavori, la quale, a detta del Giudice, realizzò un vantaggio “sacrificando” la tutela della salute e sicurezza dei propri lavoratori.

A questo punto, il Giudice propone alcune riflessioni sull’applicabilità della 231, spiegando in primo luogo che i criteri di imputazione poggiano su una triplice serie di requisiti: la commissione di uno dei reati presupposto, la qualifica dell’agente quale soggetto funzionalmente legato all’ente, anche in via di fatto e, infine, la realizzazione della condotta nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso.

Quanto ai primi due requisiti, non vi sono dubbi che, sulla base di quanto sopra esposto, il reato presupposto evidentemente sussista, e i fatti contestati siano stati posti in essere da soggetti i quali, all’interno dell’ente, rivestono posizioni apicali.

È sul terzo e ultimo requisito che il Giudice si sofferma più a lungo, in quanto, come sappiamo, una delle perplessità che questo corpo normativo ha destato fin dalle sue origini è l’incompatibilità tra i reati colposi d’evento in esso contenuti (a titolo esemplificativo i reati di omicidio colposo e lesioni personali commessi con violazione di norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro oppure i reati ambientali, in larga parte colposi) e la logica di interesse o vantaggio. Tale dubbio interpretativo è dovuto in primis al fatto che gli eventi di omicidio e lesioni colpose non potrebbero essere sorretti da interesse o vantaggio dell’ente, mentre, in secondo luogo, la non volontarietà dell’evento è inconciliabile con la volontà di realizzare un interesse dell’ente o procurargli un vantaggio.

La soluzione che il Giudice accoglie è quella che oggi può essere considerata la tesi più consolidata ovvero quella che valuta la vantaggiosità non dell’evento, bensì della condotta posta in essere in violazione di norme cautelari portando (con un esempio che può adattarsi al caso di specie qui in esame) ad omettere adempimenti in materia prevenzionistica al fine di accelerare i tempi di produzione. È in quest’ottica che il Giudice parla di “condotta presupposto” e non più di “reato presupposto” proprio ad indicare che, per i reati colposi richiamati dalla 231, la volontarietà rileva con riguardo alla mera condotta.

Successivamente, il Giudice afferma che occorre verificare se la realizzazione del reato presupposto abbia in concreto comportato effetti qualificabili come interesse o vantaggio per l’ente o se viceversa siano stati realizzati nell’esclusivo interesse dell’agente o di terzi, portando l’ente, in quest’ultima ipotesi, a vedersi andare esente dalla responsabilità. Analizzando il caso di specie, si può ritenere che, data la posizione apicale dell’agente, l’interesse dell’azienda e l’attività dell’agente siano coincidenti.

Accingiamoci ora a definire quale sia stato, di fatto, l’interesse o il vantaggio conseguito dall’ente. La protrazione dei tempi di realizzazione del lavoro e l’elevazione dei suoi costi sono le conseguenze che l’azienda avrebbe ottenuto se avesse correttamente attuato tutte le misure prevenzionistiche in materia di sicurezza richieste dal caso. In tal senso il Giudice sostiene che “l’interesse ad una rapida realizzazione dell’opera è direttamente collegabile con l’accantonamento dei presidi di sicurezza”.

All’esito di quanto sopra esposto, ricorrendo tutti i criteri di imputazione, il Tribunale ritiene ravvisabile la responsabilità amministrativa dell’impresa appaltatrice, condannandola al pagamento di una sanzione pecuniaria pari a Euro 64.500.

Per giunta, vale la pena segnalare che, nonostante l’ente abbia provveduto a risarcire il danno all’infortunato, l’attenuante di cui all’art. 12 comma 2 lettera a) D.lgs. 231/01 non è stata concessa a causa del fatto che il ristoro erogato è stato valutato del tutto insufficiente rispetto all’effettiva entità del danno patito dal lavoratore. D’altro canto invece, il Tribunale concede l’attenuante di cui all’art. 12 comma 1 lettera a), tenuto conto della lieve portata del vantaggio conseguito dall’azienda, ciò comportando una riduzione della sanzione pari alla metà.

Infine, stupisce che il Giudice abbia omesso di disporre la confisca del prezzo o del profitto del reatononostante ciò sia espressamente previsto ai sensi dell’art. 19 D.lgs. 231/01. Sul punto, peraltro, si erano già espresse le Sezioni Unite con la sentenza n. 11170 del 25/09/2014 secondo cui: “L’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, commi 1 e 2, non è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma è obbligatoria.” Riteniamo pertanto plausibile che, nel caso di specie, avverso la sentenza del Tribunale di Milano che risparmia all’ente una sanzione altrimenti dovuta, il Pubblico Ministero abbia presentato ricorso… [Posto che l’argomento della confisca implica una più ampia complessità, ci riserviamo di tornare in argomento con un successivo specifico approfondimento]

avv. Enrico Barbaresco